martedì 30 novembre 2010

Mario Monicelli 1915-2010

Mario Monicelli è morto. Il maestro della commedia amara non c’è più. Penso alla scelta fatta per chiudere, la dignità, la coerenza. Sarò stupido a pensarlo, ma tutti i grandi muoiono suicidi. Il suicidio forse come scelta per dominare la vita a pieno, fino alla fine. Perché la morte è parte della vita e si vive e poi si muore, questo si sa. Si vive, si vive e poi si sceglie di morire. Molte persone specie le più chiuse, di quella mai attratte dalle novità, criticano le scelte estreme, come forse può essere il suicidio. Penso però che tristemente molte di queste persone che ripetono come animali stanchi i lori mantra, le loro verità, i loro vuoti, scelgano poi vite che li fa morire pian piano, ogni giorno, nella gretta e meschina società occidentale. Penso che crescere sia allargare le proprie vedute, guardare con occhi diversi il mondo, gli altri, i pensieri, le parole. Crescere probabilmente non vuol dire solo alzarsi, ingrassare e invecchiare. Oggi anch’io non sono più giovane, o meglio anch’io sono più vecchio di ieri. Cerco di non credere più al bianco e al nero, quelli netti, cerco di accendere le sfumature, colorare sempre più il mio mondo. Il mio mondo interiore che solo la bellezza naturale della vita può alimentare. Quelle reazioni chimiche che ci cambiano forse in meglio, forse in peggio, ma comunque ci cambiano, ci danno opinioni, punti di vista, amori. Nella complessità delle cose penso a un maestro come Monicelli, che questo sistema cercava di dominarlo, con i suoi film, con la sua vita, con la sua arte. Negli ultimi mesi, per una serie di motivi ero stato molto attratto dai lavori e dalle dichiarazioni di Monicelli. Chiuso com’ero nei problemi tipici di una metropoli, mi ha dato tanto. Cercava penso di mantenere un’individualità personale e nazionale. Un altro grande che va via, in questo paese dovremmo tutti rimboccarci le maniche.

martedì 23 novembre 2010

Vento

Stasera c’era il vento ed era una serata fantastica. Limpida con la luce naturale delle stelle. Allora ho infilato i guanti e iniziato a camminare con un faro che splendeva nella notte. Una guida dall’alto, una luce mentre il vento sembrava il mare d’estate. Mentre il vento moveva le ultime foglie d’autunno. C’era una villa, una villa in alto sulla collinetta a sinistra, le finestre chiuse, alcune luci accese. Pensavo, che casa stupenda, magari con i soffitti affrescati. Allora mi viene un’idea. Decido di salire sul muro che separa la tenuta dalla strada per sbirciare un po’ dentro. Per vedere le stanze, il giardino, se ci sono cani. Appena sono in una posizione nascosta che mi consente di avere però una piena visuale, sento un rumore. Sento un rumore di un’auto che parte. Era lì parcheggiata all’ingresso, una spider decappottabile nel freddo invernale, qualcuno aveva acceso la vettura e inserito la marcia indietro. Allora mi abbasso per non farmi vedere e mi accorgo che a guidare era una donna. Volava via, veloce nella notte con il vento nei capelli. Allora decido di scendere. Ho capito che c’era qualcosa che valeva la pena vivere, un’occasione, una rassicurazione. Ci sono notti che sai che ne vale la pena. Forse per le stelle. Forse per il vento.

giovedì 18 novembre 2010

Notte

Pioggia e fresco è il rumore della pioggia.
Pioggia e freddo. Il rumore della pioggia.
Nella notte invernale penso di te, nella notte sospesa avevo te.
E il sole doveva ancora aspettare il nostro riposo, e i ricordi addolcire le nostre parole.
E le ombre? Quelle si facevano nette, e ora come al nord si facevano strette. Ero sincero, eri sincera? E la pioggia lontana, e il rumore di niente parlava con te. Si eri sincera mentre la pioggia ti rubava le parole, mentre la natura parlava di te. Si ero un altro a quel tempo, ero al mare ed era sera. Altri giorni. Notte

domenica 14 novembre 2010

Cipolle

Un uomo vide una donna tagliare le cipolle nella stanza. La donna piangeva e l’uomo pensò che non voleva vederla più piangere. Una donna vide un uomo ridere nella stanza e pensò che voleva sempre vederlo cosi. L’uomo e la donna parlavano mentre lei asciugava le lacrime, dall’esterno avresti potuto dire che aveva il cuore spezzato, ed è proprio quello che pensava l’uomo, parlava e immaginava, viveva e sognava. Le parole poi uscirono secche e asciutte, ma non come lui pensava. Si sentì dirle ti amo proprio mentre lei posava il coltello con cui tagliava le cipolle, con cui rubava per sempre il suo cuore, adesso e per tutta la vita. Un attimo e la vita, un secondo e l’eterno, il colore del cielo e la pioggia. Allora la sua faccia diventò come una diga, il suo viso circoscriveva il suo mondo, e il suo corpo gli accendeva qualcosa dentro, qualcosa che a volte dimenticava di avere. Era solo amore, non c’era verso di mischiarlo al perdono, era solo amore ragazza, ragazza dal viso mai visto. Questo pensava, questo pensavano nella fredda stagione. Un uomo quindi si vide uscire dalla porta sul retro. Quell’uomo attraversò la strada per non ritornare più, per contrarre tutta la vita in quell’attimo, per la paura di perderla e per la voglia di averla. Per l’insana necessità che provava di possederla ora e per sempre, ogni istante, ogni secondo che voleva riempirsi di lei, che voleva riempirla del suo seme e del suo amore. Ma l’uomo non era nato ieri e sapeva che non bisogna mai confondere l’amore con il possesso, che bisogna accettare le vite degli altri come doni a contornare una vita già piena, a decorare i momenti e i minuti senza sentire più la necessità di scappare. Allora le sue gote diventarono rosse. Le sue parole diventano soffici, i suoi pensieri diventano amore, e si amarono mentre le prima luci del mattino annusavano l’aria, si amarono mentre il calore del sole fermava il tempo ora e li, ora e per sempre.

martedì 9 novembre 2010

Inverno

Eccoci qui, riappare l’inverno. Più vado avanti e più non lo aspetto, sarà che vivo un po’ più al nord ora, sarà che vivo un po’ più su. E’ uno strano periodo l’inverno. La luce scompare, il freddo e la pioggia, l’umido e la nebbia. Il mondo lugubre di notte e spento di giorno. Lunedì mattina, bocca di sonno, occhi stanchi. Sembra che tutti per strada pensano cosa facciamo qui, dove andiamo strappati dai nostri letti caldi e dai nostri sogni di mare. Dove andiamo nello stupido buio di questa mattina? Ma torni a casa poi, o bevi qualcosa di caldo? Rimani a letto domenica o ti tagli la barba? Penso alla primavera, penso al sogno di luce e al colore. I colori accecanti. Le nostre mani calde e i nostri cuori più allegri, i nostri pensieri leggeri e i sogni vuoti o in attesa. Ogni anno ti aspettiamo in questa che non è che una fredda parentesi, in questa che non è che una lunga pausa. Una pausa per goderti meglio. Ma poi mi dico, ora mi vivo comunque l’inverno per allungarmi la vita e godermi poi te e la prossima estate, come una fiamma nel sole di un mezzogiorno di fuoco. Di quei giorni con il sole alto nell’azzurro cielo del mondo, quasi a colpire nel profondo blu del mare. In quei giorni che a volte anche in inverno si affacciano al mondo e poi tornano indietro per riposare ancora un po’, per mettersi da parte, come noi a volte dovremmo imparare. Aspettare ecco cosa dovremmo imparare a saper fare, aspettare, amare e rincorrere le stagioni senza più riflettere e senza più pensare.

martedì 2 novembre 2010

Senza Titolo

Forse è la presunzione di controllare le nostre vite che ci fa diventare cosi. Programmare se domani guardo un film o vado a correre, fare piani, e questo che ci fa essere cosi. Continuare a distribuire giornate come se fosse neve al sole, li ad aspettare che si sciolgano. Da oggi a due mesi stringo la cinghia ma poi me ne vado al mare. Viviamo forse incapaci di passare il tempo divisi tra azioni e reazioni in uno spazio inesistente. Finzione e stagioni, passare e ripassare, posare ed abbattere, ora dopo ora, contando i minuti per dare senso alla notte. Ce ne stiamo stonati, chi da chi, chi da cosa, incapaci di mettere veramente in azione il cervello perso tra l’incapacità di essere normali e la condanna di esserlo. Provando e riprovando accorgendosi che non basta e che non c’è strada, per dirla all’inglese. Allora come ad un tempo restio a farsi penetrare e un tempo al presente e uno al futuro, c’è un passato ingombrante e una realtà che non serve a nulla. Allora ci illudiamo di essere ciò che non siamo, passiamo il tempo persi in quell’idea, forse una vita, forse la vita. Come se non ci fosse un domani ma che un domani ci sarà forse per sempre. Lottiamo e ridiamo, fingiamo, siamo tristi, allegri e usiamo. Noi siamo usati invece come oggetti bianchi, finché la polvere non li cambia in grigi, così come noi invecchiamo, e passeggiamo lontani, soli e per sempre. Ma è nel nostro cervello che ci siamo. Quando ci lasciano spazi. Quando siamo lontani da situazioni scontate che viviamo e vivremo forse per sempre.